Presentazione di
Franco Dionesalvi

(pronunciato il 04/06/2015 nel Ridotto del Rendano di Cosenza)
La prima volta che sentii parlare di Alessandro Sicilia fu molti anni fa. Io ero un giovane che si interessava di poesia, scrivevo ed ero attento soprattutto alle avanguardie, alla ricerca letteraria. Mi dissero che dalle parti di Cosenza, per l’esattezza a Rende, viveva ed operava un signore che pubblicava libri che s’intitolavano “Non c’è posto per meno iota” e “Forse angolo”. Rimasi ovviamente stupito, mi chiedevo cosa significassero questi titoli così strani e chi era l’autore di simili libri. Un amico mi parlò, e fu la prima volta, di questo signore che – mi disse – era un sindacalista rivoluzionario, partecipava agli scioperi ai cortei ma poi spesso se ne distaccava perché le sue posizioni erano più dure, più radicali, così finiva col viversele in maniera pressoché solitaria. Insomma – e qui cerco di esser chiaro – quando lessi i suoi libri, e quando infine, diversi anni dopo, lo conobbi, la cosa che mi colpì fu che egli non era affatto una di quelle persone che si accostano alla poesia con fare trasandato e calcolato, da consumati personaggi. Al contrario, Sicilia era una persona autentica, e dunque il suo approccio alla poesia non rappresentava un calcolo ad effetto ma era una esigenza vera, sentita, sofferta. Lo scrivere di Sicilia è schivo, secco, essenziale. I suoi versi sono brevi e sobri. Non c’è alcuna concessione all’elaborazione elegante, allo stile ricercato, alla bella forma. Punta direttamente al bersaglio, cerca di colpire al cuore. Scrive nell’introduzione Polara: “ogni testo vuole essere significante, e non casuale; e sono sempre temi forti, su cui si discute, che diventano campi di battaglia fra schieramenti ideali. Anche in questo il percorso di Sicilia lo vede coerente, da una raccolta all’altra, sulle posizioni che aveva quarant’anni fa, nel campo della politica nazionale e in quello dei grandi scenari internazionali, con le sue rabbie e le sue certezze, i dolori di una sensibilità ammirevolmente eccessiva e di una fedeltà pronta a sfidare tutti i cambiamenti e tutte le delusioni”. Addentrandoci nella raccolta l’essenzialità si manifesta in scelte stilistiche radicali e sorprendenti. Ci imbattiamo soprattutto in sostantivi: spesso manca l’articolo, sovente manca il verbo. Ma attenzione, questo non porta a una condizione di oscurità: al contrario, la sua poesia è comprensibilissima, non c’è alcuna concessione a giochi stilistici e ad alchimie letterarie. Piuttosto la complessità è data dalla tensione interna che trapela dai versi, dal visibile tormento dell’ispirazione. Insomma è complessa la realtà, sono complicati i contesti esistenziali che questa poesia sottende, e Sicilia li vuole investigare senza niente tacere, senza nulla nascondere, ma anzi provando a cogliere significsti nascosti, a svelare trame riposte. L’esisto è spesso amaro: le considerazioni che l’autore appena accenna, sempre nell’essenzialità del suo scrivere, richiamano a una consapevolezza sofferta e disincantata. Proviamo a leggerne una, lasciando le altre alla lettura di Rossella e alla vostra interpretazione. “Non linee – non speranze – altalena d’immagine – altalena di vento – arcobaleni sulle ruote – altalena di colori – curve di donne – arcobaleni a cerchio per naufragare”. Cosa notare ? Anzitutto le considerazioni in negativo, le definizioni per sottrazione, per esclusione: non linee, non speranze. Poi, si diceva, la mancanza di articoli. Che non è casuale. Chi omette di solito gli articoli? Gli stranieri, quelli che sono da poco in Italia. Qui omettere l’articolo dà un effetto appunto di estraneità, di sentirsi straniero. Che poi fa da contrasto con la scelta di vocaboli invece altamente specialistici, fortemente caratterizzati e polisenso. Così la mancanza di articoli non esprime mancanza di possesso del linguaggio, ma invece dà una vertigine. E ancora più forte è l’assenza dei verbi. La lingua italiana è caratterizzata da una sovrabbondanza di verbi, da un uso anche eccessivo nelle varie proposizioni in cui si articola una frase. Qui, in questa poesia, non ci sono verbi, se non nell’ultima frase, “Arcobaleni a cerchio per naufragare”. Ma, per posizione e per scansione, il verbo si trova in una condizione atipica: non esprime moto da un soggetto a un oggetto, ma smarrimento, è fine a se stesso. Ed è anche vagamente leopardiano, è appunto “il naufragare”. Per il resto notate invece come certe parole siano ripetute. In questa poesia di otto brevi versi la parola “altalena” è ripetuta tre volte. Ed è di per sé una parola complessa, movimentata, bipolare. Coi sostantivi cui viene accostata, poi, la sua mobilità viene accentuata e resa ambigua, come è proprio del parlare poetico. Altalena di colori: ecco, i colori non si succedono, non si cambiano, ma si altalenano: è dunque un alternarsi variopinto e ripetitivo, in qualche misura irrazionale, insensato, che così diventa un modo di esprimere una propria personale visione, una particolare percezione del mondo. Già solo leggendo alcuni titoli di queste poesie si coglie una forte tensione, una caratura etica tormentata che spesso tende al dramma, ma sempre espressa in maniera sobria e secca, misurata ed essenziale: il museo delle bugie, il traguardo dei sogni, l’inno di babele, all’ombra delle formiche, la politica delle mosche. I temi sono tanti, e se non c’è dubbio sulla loro forza espressiva, sulla loro tensione etica, la lettura dei significati rimane invece aperta, libera. Voglio dire che pur essendo Sicilia una persona che ha idee politiche nette e chiare qui non siamo per niente in presenza di una poesia- documento, di propaganda politica, di testo che voglia convincere il lettore, che voglia portarlo da qualche parte. Non è poesia didascalica, non è poesia-manifesto: le soluzioni restano aperte, le riflessioni tendono a schiudere considerazioni ulteriori piuttosto che esaurirsi in dogmi, in catechizzazioni. Fra l’altro, spesso sono presenti in questi versi affermazioni decisamente problematiche nei confronti della divinità, versi che sembrano chiamare in causa Dio con toni fortemente critici in relazione ai mali del mondo. Anche qui la mia lettura è che non si voglia affatto fare propaganda all’ateismo, ma che piuttosto si voglia leggere in chiave problematica la storia del mondo e provare a percepirne la complessità in cerca di sensi finali che però sono misteriosi e sfuggenti. Per il resto la tensione etica è caratteristica essenziale di tutta la poesia di Sicilia: egli non ama affatto bearsi di belle rime e di espressioni ridondanti, avverte per intero la responsabilità di essere al mondo, e se scrive la scrittura non è ammissibile se non tende con tutte le sue forze alla verità, se non svela e denuncia le ingiustizie e le contraddizioni in cui ci imbattiamo quotidianamente, per preoccuparsi degli altri, per rendere il mondo un po’ migliore, o almeno più consapevole. È questo l’anno in cui si celebrano i 750 anni di Dante, e i quarant’anni dalla morte di Pasolini: due poeti diversissimi e distantissimi ma che entrambi hanno fatto della tensione etica e della passione civile il fulcro della loro ispirazione, il motivo che, solo, giustifica il fatto di mettersi a scrivere, dà luogo e senso alla poesia. Pierpaolo Pasolini denunciava la progressiva e ineluttabile perdita di quelle che riconosceva come le caratteristiche più autentiche e impagabili della natura umana. Diceva, più di quarant’anni fa, che l’”edonismo consumista” ci aveva catturato, tutti, e ci divorava dall’interno, facendoci perdere l’immediatezza, la naturalezza, la poesia. E che il “nuovo fascismo”, il “potere senza volto”, era peggiore dei precedenti, ed era quello della televisione, dell’omologazione, del conformismo: subdolo e insinuante, impediva la contrapposizione frontale e dunque era destinato ad annientarci senza mai mostrarsi. Poi andava in cerca di quanto ancora restava dell’autenticità umana, che inseguiva nei sud del mondo, nell’Italia meridionale prima, in Africa poi. Ma sentiva la macchina del potere consumista, ineluttabile, arrivare, trasformare tutto in merce. Intanto gli altri poeti, gli altri cineasti, gli altri intellettuali discettavano e discettano di forme e di sfumature, di premi e di cordate. Persino la sua morte, ancora per certi versi misteriosa e inestricabile, appare come una ulteriore, disperata denuncia, come il sacrificio d’amore del più tormentato e cupo fra i “santi”. La poesia scrive la parola e il silenzio, compone i pieni e i vuoti, si nutre di ciò che contiene e di ciò che non può esserci. Nella stessa misura parla ai pieni e ai vuoti della nostra mente, insegue, cattura, comprime e libera le nostre emozioni, le tergiversazioni del nostro sguardo, i balbettii della nostra bocca. Leggerla significa calarsi all’interno di una scena teatrale in cui non mancano gli effetti di luce, i fondali neri, le piattaforme rialzate. Soprattutto si tratta di un’operazione che ha i suoi tempi, necessariamente non brevi, commisurati alla nostra capacità di percezione e allo sviluppo della nostra vita. Ecco che tornare a parlare di poesia significa riportare in primo piano i vuoti, le sospensioni, i silenzi. Gli sguardi appena accennati, i tremiti. I movimenti dell’aria. Noi dobbiamo essere grati a persone come Sicilia, che in qualche modo si sacrificano per noi. Che fanno questo lavoro di decodifica, di comprensione del mondo, per noi tutti ma anche sulla loro pelle, mettendosi in gioco, rischiando di persona. Dandoci alla fine risultati come questo libro. Che può piacere o non piacere, essere apprezzato o meno. Ma di certo è un dono, è un contributo alla decodifica di noi stessi e del mondo. È un aiuto per vivere un po’ più lucidamente, e anche per indicare che con tutti i loro limiti e le loro contraddizioni gli uomini e le donne posseggono una bellezza che sta a noi cercare e cogliere, perché rappresenta un dono misterioso quanto imperdibile, ieri come oggi come sempre.