Franco Dionesalvi
Il suo ultimo libro si presenta in una veste tutt’altro che rassicurante. Ha una copertina completamente nera, e si intitola “teorema fittizio dio”: tre parole rigorosamente con le iniziali minuscole, e senza segni di interpunzione. Del resto tutti i titoli dei suoi libri di poesia sono enigmatici e complessi, costringono a pensare. “Non c’è posto per meno iota”, si intitolava uno, e costringeva il lettore a rispolverare le sue nozioni di matematica, concetti come l’infinito negativo. Ugualmente scomodo e inadatto agli spot pubblicitari era “Trapianto di parole”: ma come, questi poeti, invece che rassicurare con bei versi ed espressioni confortevoli, evocano le mani e i bisturi di minacciosi chirurghi a penetrare nei nostri cervelli, ad esportare le nostre sinapsi e imprimerci parole decise, pensate, costruite altrove? E poi ancora “L’alfabeto non sa scrivere”: cosa vorrà mai dire? Siamo noi che usiamo l’alfa - beto o ne siamo usati? E se l’alfabeto è l’unità primaria del nostro scrivere e parlare, il campionario dei segni primi della scrittura, si vuole forse metterne in discussione la legittimità, minare alle basi lo strumento tradizionale della comunicazione? Poi lo incontri, e rimani nuovamente sorpreso. Perché a quel punto ti aspetti di avere a che fare con un severo e selettivo semiologo,con un esteta rigoroso e polemico. E invece Alessandro Sicilia è persona di disarmante semplicità, di pacata convivialità e candida mitezza. Vive nel centro storico di Rende, di quelli che si definiscono “renditani”,mentre i rendesi acquisiti, quelli che abitano nella città nuova, a Roges o a Commenda, sono per loro dei forestieri. Il suo studio sembra sospeso in un tempo altro, collocabile intorno ai Cinquanta o ai Sessanta del secolo scorso, vi troneggiano immagini di Lenin e illibate matrioske, bandiere col Che e manifesti sindacali. E poi una collezione di videocassette in cui c’è tutto il neorealismo italiano, e attraverso la quale riconosci l’ossessione della completezza propria del collezionista. E i libri di poesia. Quello che colpisce, leggendo le sue poesie – le più antiche come quelle dell’ultimo libro – è l’estrema secchezza del dire; di più,la mancanza di articolazione del discorso. I versi di Sicilia sono talvolta del tutto privi del verbo; oppure ci sono i verbi, ma soltanto per indicare un elenco di azioni, non per relazionare due diverse proposizioni. Ogni verso inizia e si chiude in sé, e con i precedenti e i successivi va a comporre un elenco che potrebbe continuare all’infinito. Chi è il soggetto? Una sorta di io-tu-noi-tutti che ha una forte valenza sociale, ma anche una densità psicologica,un coacervo di inclinazioni e di sentimenti: è una specie di soggetto collettivo. E in questa incessante oggettivazione del dire Sicilia è forse accostabile al Balestrini di “Vogliamo tutto”e delle “Ballate della signorina Richmond”; con minore polifinia, con più limitati strumenti espressivi, ma probabilmente con maggiore autenticità. Nel suo libro più recente, più che fare professione di ateismo, Sicilia vuole sbugiardare una ipocrisia diffusa, che dalle istituzioni ecclesiastiche attraverso certi intellettuali engagé raggiunge i masss media più popolari, e sfuggendo all’autenticità della ricerca spirituale e alla sofferta solitudine di quel cammino, vuole proporre modelli falsi e bugiardi che servano solo per accomodare, far rassegnare, zittire. A fianco ai versi, Sicilia ha coltivato un’altra passione, lungo tutta la sua vita: quella per la fotografia. Viaggiatore e attraversatore di fermenti sociali e di svolte epocali, ha eletto da sempre la macchina fotografica a sua fedele compagna. E ha sempre trovato il modo,che si trattasse di un corteo della CGIL o della mostra del cinema di Venezia, di un’occupazione sessantottina o di un salotto letterario, di raccogliere i protagonisti in un abbraccio di gruppo per una foto. Sì che il suo è diventato un archivio fotografico sterminato; al cui interno, se hai la pazienza e la costanza del cercatore, scopri tesori di riaffioramenti della memoria che magari consideravi perduti alla causa degli studiosi della società,e che lì miracolosamente riemergono. Già una significativa mostra, nella prima, lucida stagione di vita del Museo del Presente di Rende, è partorita scandagliando quell’archivio, e selezionando e presentando in forma di poster degli scatti che riproponevano la vita popolare della città ne corso del tempo, dal mercato degli animali di Arcavacata ai primi comizi di Cecchino Principe. (…) Galleria fotografica che evidenzia come queste due sue passioni, la poesia e la fotografia,si intersechino con la terza e più vibrante, la passione politica. Che ha condotto Sicilia a tracciare un proprio personale percorso di impegno, che raramente ha incrociato i partiti tradizionali, e quasi sempre si è dispiegato lungo quel territorio variopinto e frammentario, generoso e perdente che un tempo veniva detto della sinistra extraparlamentare, e più recentemente della sinistra radicale (estremista e minoritario, peraltro, lo è stato sempre anche nelle scelte sindacali). Eccolo con le sue bandiere rosse e coi suoi simboli di lotta popolare e di uguaglianza;ma anche distante dai “politburo”, dai comitati centrali, dalle stanze dei bottoni; e piuttosto a cercare nelle piazze un filo rosso di autenticità, di coerenza. Lungo questi sentieri politici, come peraltro in quelli di fotografo e in quelli di poeta, Sicilia ha sempre inseguito un progetto personale nitido e chiaro, naturale e ribelle: quello di rifuggire le ipocrisie e le convenzioni, di sbugiardare i potenti e le furbate di chi sotto sotto mira a prendere il loro posto, di allargare il territorio della libertà.