Mario Saccommanno
Presentazione circolo culturale "Aculei" di Cosenza
Nel vortice della società digitale, dove il fluire incessante delle immagini e la rapidità dell’informazione rischiano di dissolvere identità e memorie, Palcoscenico di fantasmi (Città del Sole, pp. 160, 2024) di Alessandro Sicilia si distingue come un’opera coraggiosa e necessaria.
In merito ai contenuti, risulta proficuo riferire in primo luogo che si tratta di una silloge che non si limita affatto a rilevare una mera geografia delle emozioni: piuttosto, i componimenti si fanno custodi di un passato (prossimo e remoto) affidando alla parola poetica la missione di proteggere, nominare e redimere.
Coi suoi numerosi testi che la conformano – ciascuno scandito da data, ora e luogo di composizione – la raccolta assume le fattezze di una sorta di diario corale, un mosaico di esperienze intime e collettive in cui la storia personale si intreccia con la dimensione pubblica.
La parola poetica diventa così un dispositivo di resistenza che si oppone alla dimenticanza e riapre lo spazio di un incontro etico, attraverso cui riconoscersi nell’altro e ritrovare una dimensione di comunità, di responsabilità e di cura.
L’urgenza del silenzio che parla in una cornice di militanza e sperimentazione
I componimenti di Sicilia esplicitano un assunto imprescindibile: la poesia nasce dalla necessità di fermare il flusso inarrestabile dell’oblio. Le parole, quando operate con cura, si trasformano in baluardi contro l’anonimato e la distrazione, capaci di conservare tracce indelebili di eventi e sentimenti. Il silenzio, in questa prospettiva tracciata dall’autore, diventa spazio fertile in cui i termini riescono a germogliare e a rivelare il loro enorme potere di risveglio delle coscienze.
Dunque, si ha a che fare con una poesia che scava nel tempo, che marca con precisione ora e luogo, che agisce nella direzione di fissare ciò che rischia di dissolversi. Pertanto, imprimerlo sulla carta vuol dire farlo vibrare come testimonianza.
Attraverso l’alternanza di metafore liriche, sinestesie evocative, assonanze musicali e paradossi taglienti, la poetica di Sicilia si configura come un atto sovversivo che rompe la logica deduttiva per avviare un dialogo tra poetica e responsabilità civile. È qui che l’autore pone in campo la forza politica della parola, la sua capacità di fare barriera al potere dell’oblio, riconoscendo che la memoria non è mai neutra, ma sempre selettiva e che, da qui, esige un atto di consapevolezza.
Nel risvolto interno, il volume si apre con la sapiente Introduzione di Giovanni Polara. Nei contenuti emerge con nettezza il profilo intellettuale di Sicilia come poeta “di strada” e “intellettuale proletario”, legato a un’esperienza militante che non si limita alla scrittura, ma la attraversa interamente.
Si tratta di una prospettiva che permette di cogliere i tratti salienti della raccolta, al cui interno si avverte l’eredità contadina, la resistenza di una lingua radicata nella fatica e nella dignità contrapposta alla retorica piatta del presente. Si genera in questo modo una carica etica che percorre l’intero “palcoscenico” di fantasmi. A ben vedere, è una tensione che nasce dall’incontro tra un patrimonio simbolico antico e la modernità disorientante, una tensione che Sicilia riesce a governare con grande equilibrio, trasformandola in energia creativa.
Titoli-soglia e sezioni evocative
La forza della struttura risiede anche nella creazione di titoli che fungono da vere e proprie “soglie di senso”. Gallerie di nomi come ?Dio, Aste di sogni, Gli zeri della mente, Siccità di lavoro, Le formiche del cielo, L’umanità dei soldi – ciascuno carico di risonanze magmatiche – non descrivono semplicemente contenuti, ma agiscono come portali interpretativi.
Questi lemmi pulsano di energia semantica e obbligano il lettore a trattare la silloge non come un prodotto da consumare rapidamente, ma come un invito a varcare soglie di riflessione, a interrogare i temi e a portare la propria esperienza personale dentro la lettura.
All’interno di queste sezioni, la scrittura si muove come una forza viva, in grado di comporre paesaggi interiori e sociali insieme, di evocare senza mai spiegare, di proporre domande anziché risposte. È in questo respiro che la poesia di Sicilia rivela la sua vera potenza: non confortare, ma far pensare, scuotere, creare connessioni.
Inoltre, elemento distintivo e potente è la presenza dei monostici: poesie ridotte a un solo verso, vere e proprie esplosioni semantiche che condensano significati vertiginosi. Si pensi a esempi come
Preghiera
produzione di speranze
oppure a
trump
tu?Dio
Questi lampi poetici – sovente in bilico tra sacro e profano, tra dimensione politica e mistica – creano un cortocircuito emotivo che trascende la pagina e obbliga a un gesto di riflessione immediata, come se il verso si completasse solo nella coscienza del lettore.
È un procedimento vicino alla poetica del frammento novecentesco, memore (fra i numerosi esempi che si potrebbero addurre) di Ungaretti o di Jabès, ma aggiornato a una contemporaneità che chiede di fare economia di parole senza impoverirne la forza.
Questi bagliori, così essenziali e spiazzanti, rappresentano forse la punta più radicale della ricerca di Sicilia, che non rinuncia mai a sfidare il lettore a ricostruire, a integrare, a interrogarsi. Tali frammenti costituiscono una vera e propria palestra del pensiero critico, dove la parola diventa miccia e il silenzio innesco.
Diario poetico: spazio e tempo
Un altro elemento da tenere in considerazione è la scansione cronologica e geografica di ciascun componimento, con annotazioni come “Rende studio”, “Rende mia stanza”, “Rende stanza da letto”. In merito, occorre precisare che appare una scelta ponderata che va oltre il mero esercizio estetico, configurando il testo come un diario di bordo della resistenza poetica.
È una cronaca senza gerarchie, in cui ogni luogo e ogni ora diventano “teatro” di un’esperienza poetica che si fa mappa morale e testimonianza storica. Il lettore è invitato a riconoscere la propria quotidianità riflessa in siffatte coordinate, a trasformare il presente in un tempo consapevole e non passivo.
Questo dispositivo restituisce concretezza all’io lirico: le pareti, i mobili, la luce, la polvere, i respiri diventano co-protagonisti della parola, intessendo un dialogo costante tra la soggettività e il mondo. È qui che la poesia si fa realmente incarnata, radicata nel gesto di vivere e nell’orizzonte di una comunità possibile.
Radici calabresi e vocabolario del futuro in un dialogo filosofico e letterario
Un altro degli aspetti più affascinanti di Palcoscenico di fantasmi è l’incontro tra la Calabria ancestrale e il vocabolario dell’innovazione. Sicilia non esita a mescolare gli elementi naturali, le fatiche dei contadini, ad algoritmi, bit o circuiti. Si tratta di un abbraccio di elementi (apparentemente inconciliabili) che, attraverso la scrittura, convergono in un corpo poetico unitario.
Questa commistione non appare mai artificiosa, perché riflette la complessità di una realtà che, pur fondata su radici profonde, è costantemente proiettata verso il futuro. È proprio tale capacità di tenere insieme la voce arcaica e quella tecnologica a dare alla silloge una vibrazione unica, che supera la tentazione della nostalgia e si fa invece sguardo critico, capace di raccogliere le sfide del presente senza scorciatoie.
La ricchezza intertestuale della silloge riversa echi filosofici e letterari. Soprattutto, brilla la tradizione poetica del Novecento: accanto a Ungaretti con le sue stilizzazioni o a Jabès con la forma frammentaria dell’esilio – esempi già citati in precedenza – si possono cogliere sfumature montaliane soprattutto nella potenza evocativa dei versi o l’esperimento linguistico adoperato da Zanzotto. Sono solo esempi di un numero nutrito di autori che potrebbero essere presi a sostegno di svariate considerazioni.
Ciò che preme sottolineare è come Sicilia faccia vibrare questi riferimenti restituendoli sotto forma di un nuovo respiro poetico che diventa strumento di resistenza e responsabilità.
La parola si fa campo di battaglia e luogo di incontro, in un rigore che non concede sconti al lettore, ma lo chiama a essere parte attiva. Ogni titolo è già un mondo possibile, qualsiasi verso un atto morale, il silenzio una possibilità di responsabilità condivisa, come in un invito continuo a non chiederci la parola «che squadri da ogni lato», ma a renderla margine vivo, soglia dinamica, capace di proteggere i termini dall’inaridimento e riconnetterli al gesto della resistenza civile.
Proprio in questo modo, come accennato già in precedenza, la raccolta (ma il discorso si può allargare all’intera produzione di Sicilia) diventa non solo pratica letteraria, ma proposta etica e civile, profondamente radicata in un’idea di arte come bene comune.
Pace, nonviolenza attiva ed egemonia degli algoritmi
La pace, in questa raccolta, è un’idea viva e un impegno concreto. Non si tratta di un concetto astratto o riconciliante, bensì di un esercizio quotidiano: si costruisce nel rifiuto della violenza simbolica, nella difesa di un linguaggio libero, nell’opposizione alla retorica di potere.
La poesia diventa manifesto di nonviolenza attiva, una sorta di «disobbedienza quieta» che si inserisce nella quotidianità e la trasforma dall’interno. Sicilia chiede al lettore di non accettare la sopraffazione linguistica, di non farsi colonizzare dal linguaggio dominante e lo invita a coltivare una parola più giusta, più aperta, più ospitale.
Uscendo dalla dimensione intimista, la silloge lancia infine lo sguardo verso il paesaggio digitale. “Che lingua viviamo oggi?”, interroga Sicilia, puntando il dito contro l’egemonia degli algoritmi e la riduzione dell’uomo a serie di dati. Questo monito non offre scorciatoie consolatorie, ma pone il lettore di fronte a un bivio: consegnare la parola alla macchina oppure custodirla come bene comune.
In questo passo finale, la raccolta si congeda come un documento storico e civile, restituendo non solo versi, ma una mappa di soglie da attraversare, un invito a non abbandonare il presente all’oblio e alla distrazione. Chi varca le quinte di questo teatro di fantasmi scoprirà che resistere significa trasformare la poesia in strumento di mobilitazione etica e politica, portando la parola al centro di un nuovo patto di comunità più consapevole e solidale.
Mario Saccomanno
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